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L’«infantazgo»: donne reali tra esercizio del potere e mecenatismo religioso nel Medioevo iberico

  • Immagine del redattore: Martina
    Martina
  • 19 mar 2020
  • Tempo di lettura: 8 min

La monarchia medievale: una partnership tra più attori

Nel suo The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political Theology, Ernst Kantorowicz indaga il tema della duplice natura del corpo dei sovrani nel Medioevo e nella prima età moderna. Spunto iniziale di questa indagine è una curiosa dottrina che trova la sua origine nell’ambiente giuridico dell’Inghilterra di epoca Tudor, secondo la quale un sovrano possederebbe due «corpi»: da un lato, un corpo fisico, mortale, destinato a deperire con il passare del tempo, e quindi materiale e storicamente determinato; dall’altra, un corpo «politico», che non ha consistenza fisica e per questo non può corrompersi o morire. In questo secondo corpo, una sorta di veste immateriale ereditata di generazione in generazione, si concentra l’essenza della regalità, la dignitas dalla quale derivano il potere regio e la sua legittimità.


È proprio intorno a questo secondo corpo che gravita l’intera istituzione della corona. Quando pensiamo a un sovrano tendiamo spesso a considerarlo la sola e principale figura in cui si accentra il potere reale, forse a causa di suggestioni etimologiche e storiche: il termine tardo medievale monarcha, non a caso, significa ‘colui che comanda da solo’. Di fatto, però, la realtà non potrebbe essere più distante da questa etimologia mitica: nel Medioevo specialmente, la monarchia è un’istituzione complessa e composita, a cui partecipano più attori – magnati, baroni, ma anche membri della famiglia reale – tutti necessari al buon esercizio dell’autorità regia. Come ben formulato da Kantorowicz, la monarchia funziona come una vera e propria impresa collettiva, una partnership:


«The Crown itself had a corporational character – with the king as guardian, though again not with the king alone, but with the composite body of king and magnates who together were said to be, or to represent, the Crown».[1]


Per capire meglio cosa si intende, possiamo rifarci a un esempio attuale: alla monarchia britannica è stato appioppato, in tempi tutto sommato recenti, il famoso soprannome di the Firm (‘l’azienda’, per l’appunto).


Negli ultimi anni, gli storici delle monarchie medievali si sono cimentati nell’indagine di un aspetto particolare di questa partnership reale: il rapporto tra il re e i membri femminili della sua famiglia. Nello specifico, sono stati indagati a fondo il ruolo delle donne reali all’interno dell’istituzione monarchica, i fondamenti della loro autorità, le loro attività politiche, culturali e di rappresentanza, nonché il margine di manovra che avevano a disposizione per influenzare l’esercizio del potere, aree che erano già state oggetto di studio approfondito in relazione alla figura del re. Il potere regio nel Medioevo è quindi il risultato dell’interazione costante e necessaria tra uomini e donne reali, di una collaborazione basata sulla complementarietà dei sessi e dei ruoli.


Il caso delle donne reali nell’Iberia medievale: tra venti di guerra e eredità visigota

Un esempio particolarmente appassionante di questa collaborazione è offerto dalle monarchie dei regni iberici – i regni, quindi, che si trovavano in quella che gli antichi definivano Iberia, la penisola iberica, tra i quali si annoverano tra gli altri Castiglia, León, Aragona e Portogallo – dove le donne reali godevano di una autonomia e di una autorità uniche nel panorama europeo. Ma non solo: questa autonomia e questa autorità non erano esercitate nella sfera segreta e familiare degli appartamenti privati, come spesso ci raccontano i film e le serie televisive, in cui la regina sussurra consigli all’orecchio del re nell’intimità della camera da letto, bensì erano riconosciute senza sforzo dalla società come parte integrante dell’istituzione monarchica. In Iberia, spesso e volentieri, le donne esercitavano un potere pubblico, riconosciuto e accettato come necessario. Ma per quale ragione questo accadeva?

Mappa 1. L'Iberia alla fine dell'XI secolo [2].


La risposta è da ricercarsi nella delicata e mutevole situazione politica dell’Iberia medievale. In una realtà come quella della penisola, in cui i confini geografici e politici dei regni si alteravano con rapidità a causa dei continui conflitti armati tra i regni cristiani e l'impero musulmano di Al-Andalus, e tra i regni cristiani stessi, mantenere intatti i territori conquistati mentre se ne conquistavano di nuovi era di fondamentale importanza. Per farlo, era necessario essere pragmatici, e permettere anche alle donne di ereditare i territori conquistati in mancanza di eredi maschi. Ciò era reso possibile dal diritto: nei regni dell’Iberia, a differenza degli altri regni europei, vigevano infatti ancora i princìpi della discendenza cognatica e dell’eredità paritaria che erano stati formulati nel Codice Visigoto nel VII secolo e che avrebbero rappresentato il quadro di riferimento giuridico vigente per molti secoli a venire. Nella legge visigota, le donne erano considerate uguali agli uomini in termini di diritti e successione, e potevano quindi ereditare terre e titoli in maniera indipendente, nonché disporne liberamente e trasmetterli ai propri eredi; inoltre, per il principio dell’eredità paritaria, l’eredità di entrambi i genitori era ripartita in parti uguali tra gli eredi di ambo i sessi – ciò che di fatto rendeva le donne eredi legittime. Nei regni cristiani, quindi, non solo le donne reali, ma tutte, disponevano di una autonomia legalmente garantita.


Per comprendere fino in fondo le implicazioni di questo retaggio giuridico basta pensare alla regina regnante forse più emblematica della storia di Spagna: Isabella I di Castiglia. Senza la discendenza cognatica e l’eredità paritaria Isabella non avrebbe mai potuto rivendicare in maniera altrettanto efficace il trono di Castiglia dopo la morte del fratello Alfonso, che aveva lasciato il trono castigliano senza eredi maschi diretti. E senza Isabella, il nostro sarebbe stato un mondo molto diverso.


Un caso emblematico di partnership reale nell’Iberia medievale: l’infantazgo

Nel corso della storia, sono le infante reali ad aver specialmente beneficiato di questa autonomia. Quando oggi ci imbattiamo nei titoli nobiliari infante e infanta, sia nella lettura, sia nella conversazione, tendiamo ad associarli alle monarchie della penisola iberica, oppure – se siete appassionati di famiglie reali dei giorni nostri – a membri specifici di queste monarchie: l’infanta Sofia e le infante Elena e Cristina, rispettivamente la figlia secondogenita e le sorelle del Re Filippo VI di Spagna. Il titolo di infante e infanta è infatti ancora oggi proprio dei figli cadetti nei regni iberici, Spagna e Portogallo, in cui, per contrasto, gli eredi al trono si fregiano di specifici titoli onorifici (Principe delle Asturie e Principe di Beira). Il ruolo delle infante (e degli infanti) è legato quindi a personaggi tutto sommato di secondo piano.


In epoca medievale, invece, le infante della monarchia castigliano-leonese erano figure note e di primo piano perché associate a una sorta di istituzione (anche se il termine è senza ombra di dubbio anacronistico) o prassi di governo che faceva capo alla corona: l’infantazgo, in castigliano, o infantaticum, come compare talvolta nei documenti latini (anche se l'uso del termine non era né sistematico e formalizzato). La parola termina con il suffisso -zgo, che significa ‘condizione, incarico, giurisdizione’: l’infantazgo era infatti l’insieme di proprietà che si trovava sotto la diretta giurisdizione di una o più infante. Concretamente, si trattava di una parte dei beni della corona che comprendeva entità di diverso tipo – principalmente monasteri reali e chiese, a cui erano annessi città, rendite e terreni – che le infante ottenevano dal monarca per sostentarsi economicamente e su cui esercitavano liberamente e autonomamente la propria autorità. In Castiglia e León l’infantazgo aveva visto la luce al principio del X secolo ed era rimasto in uso fino al XII secolo, anche se durante gli anni e attraverso l’intervento delle donne reali che lo gestivano, cedendo e acquisendo terre e beni, aveva cambiato decisamente estensione e fisionomia.


Ma chi erano le donne reali che governavano l’infantazgo? In genere, si è detto, infante, e quindi le figlie femmine del monarca, le sue sorelle, le sue zie, nubili, vista l’affiliazione monastica dell’istituzione. Ciò permetteva inoltre che le proprietà comprese nell’infantazgo venissero riassorbite dalla corona alla morte delle infante. L’autorità sull’infantazgo era tradizionalmente suddivisa tra più donne reali, configurandosi così come une una vera e propria impresa a gestione familiare.


L’ultima grande infanta leonese: Sancha Raimúndez e il monastero di San Isidoro di León

L’infanta più famosa associata all’infantazgo è senza dubbio Sancha Raimúndez (ca. 1095-1159). Sancha era figlia della regina Urraca I di León-Castiglia e del suo primo marito, il conte Raimondo di Borgogna, nonché la sorella maggiore di Alfonso VII di León-Castiglia, detto el Emperador, che alla morte della madre nel 1126 aveva ereditato i regni di León, Castiglia e Galizia. Durante il regno di Alfonso Sancha non soltanto era annoverata tra i principali consiglieri del fratello in materia di governo ed emetteva congiuntamente con lui diplomi reali (dove è identificata come regina), ma gestiva anche la gran parte delle proprietà dell’infantazgo sparse nei regni del fratello, sulla scia delle zie materne, le grandi infante dell’infantazgo Elvira e Sancha.

La regina Urraca di León Castiglia, madre dell'infanta Sancha Raimúndez. [3]

Nell'immagine a destra: La regina Urraca di León Castiglia, madre dell'infanta Sancha Raimúndez. [3]


Nel 1127, Sancha Raimúndez riceveva infatti da Alfonso VII l’infantazgo leonese, il più ricco ed esteso, entrando così in possesso di alcuni dei monasteri più importanti del regno, tra i quali spicca quello prestigiosissimo di San Isidoro di León, sul quale vogliamo ora soffermarci.

San Isidoro è ancora oggi uno dei complessi architettonici in stile romanico più importanti di Spagna: la basilica, costruita e ampliata nei secoli XI e XII, ospita il Pantheon Reale, in cui nel Medioevo veniva sepolta la maggior parte dei membri della famiglia reale leonese. Il pantheon, costruito su richiesta delle infante leonesi susseguitesi a capo dell’infantazgo, contiene alcuni tra i più pregevoli e meglio conservati cicli pittorici di epoca romanica di Spagna.


Nell'immagine a sinistra: Doña Sancha Raimúndez, infanta di León. [4]


Sancha aveva deciso molto presto di vivere nel monastero di San Isidoro, non solo perché era il più importante, ma anche perché era situato nella capitale, il centro pulsante della vita politica e istituzionale del regno. Sancha aveva anche deciso di proseguire l’opera delle infante che l'avevano preceduta, patrocinando il monastero con donazioni frequenti e laute: ed è proprio attraverso questo patronato che Sancha ha mostrato alla storia tutta l’influenza – politica, artistica e culturale – che un’infanta poteva esercitare grazie ai domini dell’infantazgo. Per esempio, l’infanta non solo effettuava regolari donazioni in denaro e territori a San Isidoro, ma incoraggiava anche i canonici del monastero a produrre testi agiografici, attraverso i quali promuovere e celebrare la monarchia e il proprio ruolo di benefattrice, contribuendo così a creare un’identità culturale e religiosa condivisa.

Sotto il patrocinio di Sancha, il monastero ha vissuto una delle sue fasi di massimo splendore: nel 1148 venivano finalmente terminati i lavori di costruzione e di ampliamento del monastero e il 6 di marzo del 1149 la chiesa di San Isidoro veniva consacrata con una messa solenne. Sotto il profilo architettonico, Sancha aveva generosamente contribuito alla costruzione di nuovi edifici canonicali, di oggi sono sopravvissuti il chiostro, la sala capitolare e la torre--campanile.




Nell'immagine a destra: la torre campanaria in stile romanico di San Isidoro. [5]



Alla morte dell’iconica Sancha, la prassi dell’infantazgo era declinata rapidamente: le proprietà erano state successivamente distribuite anche tra le infante sposate, che le avevano poi trasmesse ai loro discendenti o coniugi, disintegrando così lo zoccolo duro dell’infantazgo. Ciononostante, quella dell’infantazgo resta una delle più avvincenti e straordinarie esperienze dell’esercizio del potere femminile nell’Europa medievale.


Il ciclo pittorico del Pantheon Reale di San Isidoro di León. [6]



Bibliografia


  • Bianchini, Janna: The infantazgo in the Reign of Alfonso VIII, in Gómez, Miguel / Lincoln, Kyle C. / Smith, Damian J. Smith (ed.): King Alfonso VIII of Castile: Government, Family, and War, New York 2019, pp. 75-85.

  • García Calles, Luisa: Doña Sancha, hermana del emperador, León 1972.

  • García Martínez, Aida: Aproximación critica a la historiografía de San Isidoro de León, in «Estudios humanísticos. Historia» 4 (2005), pp. 53-93.

  • Henriet, Patrick: Deo votas. L’infantado et la function des infants dans la Castille et le León des Xe-XIIe siècles, in Henriet, Patrick / Legras, Anne-Marie (ed.): Au cloître et dans le monde. Mélanges en l’honneur de Paulette L’Hermite-Leclercq, Parigi 2000, pp. 189-203.

  • Kantorowicz, Ernst K.: The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political Theology, Princeton 1967 (trad. it. I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989).

  • Martin, Therese: Hacia una clarificación del infantazgo en tiempos de la reina Urraca y su hija la infanta Sancha (ca. 1107-1159), in «E-Spania» 5 (2008), in rete: <https://journals.openedition.org/e-spania/12163> [19.03.2020].

  • Martínez, Salvador H.: La infanta doña Sancha Raimúndez y la conjura de Grajal (I), in «Argutorio» 41 (2019), pp. 4-14.

  • Reilly, Bernard F.: The Medieval Spains, Cambridge 1993.

 

[1] Kantorowicz, Ernst K.: The King’s Two Bodies. A Study in Medieval Political Theology, Princeton 1967, p. 381 (trad. it. I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989). Corsivo aggiunto.

[2] Reilly, Bernard F.: The Medieval Spains, Cambridge 1993.

[3] Tumbo A, Archivo de la Catedral de Santiago de Compostela.

[4] Martínez, Salvador H.: La infanta doña Sancha Raimúndez y la conjura de Grajal (I), in «Argutorio» 41 (2019), p. 11.

[5] Fotografia di Turol Jones <https://www.flickr.com/people/10352740@N03> [19.03.2020]

[6] Fotografia di Alonso de Mendoza, Wikipedia Commonso <https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Leon_(San_Isidoro,_pante%C3%B3n).jpg> [19.03.2020]

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